Intervista a Maurizio Donzelli
Sin dall’infanzia l’arte è stata il suo linguaggio naturale, evolvendo in un metodo di conoscenza che “diventa una vera e propria esperienza di coscienza”. Dalle sue opere, emerge una forte componente legata all’ambiguità e alla trasformazione visiva. Dove nasce questa “fascinazione” per l’indefinito? Si tratta di un percorso lungo, fatto di scoperte, fascinazioni, illuminazioni; ma forse è sempre stato un mio interesse quello di cercare di vedere l’invisibile nel visibile, sulla strada di un principio olistico dove ogni cosa del mondo è interdipendente alle altre.
C’è una frase di Duchamp: “I quadri li fanno quelli che li guardano”. Autore, opera, pubblico, tre elementi imprescindibili, a me sta a cuore che l’opera resti opera-aperta, che a suo modo respiri, che divenga possibilmente qualcosa di diverso negli occhi di chi la osserva, renda cioè all’osservatore una esperienza esclusiva, richiedendo però all’osservatore anche una partecipazione. Un altro aspetto interessante riguarda me come autore, vorrei che l’opera prodotta dica per primo a me, qualcosa che io stesso non so di me, che io stesso avverta in essa una sorta di rivelazione. Perché questo possa avvenire programmaticamente vanno esclusi dall’immagine quegli elementi mimetici, riconoscibili, della realtà. L’atto di riconoscere è equivalente a una sorta di classificazione. Se le cose osservate finiscono nelle varie caselle per la funzione che hanno, le riduciamo e le distanziamo, soprattutto le consideriamo solo per la loro possibile utilità e nel nostro possibile atto di possesso. Le sue opere richiedono una partecipazione attiva dello spettatore. Chi osserva è co-creatore dell’opera? Dato che non mi ritengo un artista astratto, lascio molti elementi di riconoscibilità magari solo accennati, molte mie opere si intitolano Disegni Del Quasi, Eccetera, sono tracce di qualcosa in divenire, in trasformazione. Ma questo sforzo, o meglio questa “partecipazione attiva” la richiedo anche al mio pubblico, vorrei che l’osservatore percepisse una sorta di risonanza, tra ciò che vede e ciò che riconosce prendendolo dalla sua esperienza, è in essenza un atto di libertà. Una chiave di lettura per la sua arte? O preferisce che ciascuno trovi il proprio percorso? Ognuno è diverso, e ancor di più la nostra intima esperienza, vivendo capiamo che momenti diversi della nostra vita ci hanno avvicinato o ci hanno allontanato da qualcosa, quali erano i momenti più giusti? Dobbiamo sempre ricordarci che il percepibile è sempre enormemente maggiore, enormemente più ricco di ciò che vediamo, e soprattutto che gli oggetti della realtà che guardiamo ci restituiscono lo sguardo. A molti può apparire un pensiero controintuitivo, di certo un pensiero enigmatico e lo è davvero! Ma la ragione nel campo dell’arte si spinge fino ad un certo punto, questo è il bello dell’arte: il suo cuore pulsante. E’ l’energia fluida dell’immaginazione che crea e verifica di volta in volta la realtà del mondo e ci rende unici e differenti, e soprattutto ci mette in contatto con l’esperienza multidimensionale della bellezza. Chiudo con una frase di Hillman: “abbiamo confuso l’immagine con il visibile”. Io auguro a tutti i nostri lettori di non confondere mai il visibile con l’immagine.